Cerasus, cerasi…Cerasuolo
TEMPO DI LETTURA: 7 minuti
MUSICA DA ASCOLTARE: “Caffè nero bollente” – Fiorella Mannoia
TESTO DA LEGGERE: “Di nessuna chiesa. La libertà del Laico” – Giulio Giorello
Quando leggo la parola “Cerasus” torno indietro ai miei tormentati anni adolescenziali. Penso a lei, la tanto temuta professoressa di Latino del Liceo scientifico di Sulmona: la prof. Pettinella. Mi pare di sentire ancora il suo odore, simile a quello di un vocabolario ingiallito dal tempo e dalle tante dita che l’hanno sfogliato.
Che sia un piacevole ricordo o no, fu in quei momenti che compresi il legame tra l’etimologia delle parole latine e l’origine di alcune formule espressive del nostro gergo dialettale.
Una volta mi chiese la professoressa: “Guerino, oggi ti interrogo! Declinami “Cerasus” sostantivo femminile della seconda declinazione”.
“Ci provo prof, anche se preferirei parlare di “ceracē “. Risposi alla prof, ridendo sotto i baffi.
“Fai poco lo spiritoso Guerino, se le ciliegie nella forma dialettale le chiami “ceracē” non è un caso. È grazie al latino!”
Incredibile! Sono passati tanti anni da quegli ansiosi attimi prima delle interrogazioni fino a quando, nell’ultimo giorno della Kermesse Sulmonese sui vini d’Abruzzo “Abwine 2022”, il sommelier professionista Massimo Iafrate, durante la tavola rotonda organizzata dalla delegazione AIS di Sulmona lo scorso 3 luglio, pose a noi ospiti un emblematico quesito:
“Cosa rappresenta per voi il Cerasuolo d’Abruzzo?”
Domanda diretta senza indugi, come nelle vecchie interrogazioni di Latino. La parola “Cerasuolo” mi catapulta ogni volta ai tempi del Liceo, sulla seconda declinazione “Cerasus, cerasi”! In fin dei conti una delle caratteristiche del vino Cerasuolo D’Abruzzo è quel tipico sentore di ciliegia che si riflette anche nelle sue sfumature cromatiche. Tutt’altro che rosa, anzi rosato.
Eravamo in tre, il numero perfetto: Alice Pietrantonj con la sua storica azienda vitivinicola, Ottaviano Pasquale indiscutibile artigiano del vino ed io invitato in qualità di agronomo.
Facile rispondere, in fin dei conti siamo in terra di Cerasuoli. Cosa vuoi che sia!
Rispose Ottaviano alla domanda sul Cerasuolo:
“È il nostro vino, la nostra tradizione.”
Prontamente rispose Alice:
“La sintesi della nostra cultura enologica, difficile da immaginare come un comune vino rosato”.
Fu musica per le mie orecchie, non aspettavo altro! Trovarsi insieme, produttori e tecnici, a condividere lo stesso pensiero non sempre è cosa facile.
Il Cerasuolo d’Abruzzo è un vino “Sui generis”, non è una via di mezzo, non è un bianco vestito di rosa, tantomeno un rosso svilito dal suo carattere burbero. Così ricco di accattivanti sfumature organolettiche che bisognerebbe definirlo “vino empatico”. Ha tutte le carte in regola per ritagliarsi il suo spazio tra i più famosi vini abruzzesi come il Montepulciano o il Trebbiano. Purtroppo per molti anni è stato percepito come un fratello minore, un vino ibrido, nulla di più errato nel campo enologico.
Ormai è cambiata la percezione di questo vino tra i consumatori, nettamente migliore rispetto al passato, ma probabilmente manca ancora la consapevolezza di avere tra le mani un grande prodotto che può evolversi, senza necessariamente rincorrere mode o esigenze di mercato.
Massimo Iafrate, il moderatore della serata, in chiusura propose un’interrogativa riflessione:
“Una DOCG Cerasuolo d’Abruzzo sarebbe necessaria per valorizzare e tutelare questo prodotto?”
Non credo che regole più rigide sulle modalità di produzione e sulle caratteristiche organolettiche possano aumentare la percezione di qualità del consumatore finale. In realtà il Cerasuolo d’Abruzzo nel 2010 ottenne un disciplinare di produzione ad hoc, staccandosi definitivamente dal disciplinare del Montepulciano d’Abruzzo DOC, pur provenendo dalle stesse uve di Montepulciano nero. A cosa servirebbe irrigidire ancor di più un disciplinare di produzione già disegnato su una tipologia di vino ben definita? Chi potrebbe trarne benefici: il produttore o il consumatore?
Nessuno dei due, credo.
Penso ad una citazione letta di recente su un interessante libro di Giulio Giorello, professore di filosofia della scienza all’università di Milano, dal titolo “Di nessuna chiesa. La libertà del laico”, acquistato in libreria qualche mese fa durante una breve sosta in aeroporto:
“Regole e formule, questi strumenti meccanici di un uso razionale o piuttosto di un abuso delle disposizioni naturali [dell’uomo] sono i ceppi di un’eterna minorità.”
Non sono parole di un impetuoso relativista o di un impenitente libertario, bensì del filosofo Immanuel Kant che nel 1784 cercava di rispondere alla questione: “Che cos’è l’illuminismo?”
Nel suo libro Giorello cita diverse affermazioni di importanti studiosi della società moderna di consumatori dalla quale credo si possano prendere diversi spunti interessanti che influenzano molto le scelte commerciali di ogni comunità di produttori.
Secondo l’antropologo Clifford Geertz: “la società aperta e libera è un bazar levantino dove si possono trovare un mucchio di cose e nessuno è costretto ad acquistare alcunché tantomeno a sentirsi in obbligo a proibire l’esposizione di quella merce. Di fatto il bazar non è che una proiezione della sovranità del consumatore.”
Ma se qualcuno dei frequentatori percepisse quella diversità come una minaccia alla propria identità?
Il politologo Giovanni Sartori ha scritto: “Gli individui si aggregano in “coalescenze” in modo sufficientemente stabile a patto che esista sempre un confine mobile ma non cancellabile tra noi e loro. Tracciare un confine implica clausura all’interno della comunità, ma se questo è il problema, allora abbiamo la possibilità di scegliere tra identità e apertura, tra l’idolo di una radice inestirpabile e l’impazienza per la libertà.”
Ancora una volta credo che la tutela dell’identità di un prodotto non può passare solo attraverso delle semplici regole eccessivamente limitanti, anche se necessarie. Se hai qualcosa di unico tra le mani non basterebbe solamente tutelarlo tracciandogli confini, ma piuttosto far conoscere la sua identità comunicando le peculiarità che lo rendono impareggiabile e singolare nella sua piacevolezza, affinché non venga percepito come “estraneo” da chi lo considererebbe un prodotto poco “familiare”.