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Pescara vini

MUSICA DA ASCOLTARE: Bartali – Paolo Conte

TEMPO DI LETTURA: 15 minuti

Come ogni evento che si rispetti anche quest’anno la tappa al Vinitaly non potevo saltarla, difatti da quando ormai ho intrapreso il percorso da enologo, sono poche le edizioni che mi sono perso. Posso dire serenamente che non c’è enologo che si rispetti che a Pasqua non porti i postumi del Vinitaly ancora addosso, anche se l’edizione di quest’anno per me è stata letteralmente una “toccata e fuga”. Scrollato di dosso il consueto presidio dello stand, salutai amici e colleghi e poi via verso la Francia! Direzione Lione. Questa volta avevo un appuntamento di lavoro con il mio amico Dorian nella sua bellissima città. Adoro Lione, uno scrigno di bellezza, meno caotica di Parigi ma con tanta storia da raccontare, borghese e variopinta allo stesso modo. Tornare in questa città è un piacere, perdersi nei suoi vicoletti storici ancor più. Una serata gastronomica con Dorian e i suoi amici non poteva mancare, ce n’è per tutti i gusti in questa città, anche perché oltre al buon cibo non bisogna dimenticare che non è molto lontana da due distretti viticoli importanti: il godereccio Beaujolais e l’indiscutibile Borgogna. Come possono passare inosservati questi iconici vini francesi tra le locande della città? Impossibile!

Ed è proprio a questo punto del viaggio che la mia collaudata abilità di unire l’utile al dilettevole vede dirottare la mia permanenza da Lione, di lì a poco, verso nuovi orizzonti. L’indomani salutai Dorian e mi diressi verso uno dei distretti viticoli più importanti al mondo: la Borgogna. Nei giorni precedenti avevo prenotato un piccolo tour di cantine borgognesi grazie ai contatti della mia amica Gaia, come non ringraziarla! Percorrendo l’Autoroute du Soleil, lasciandomi alle spalle il nucleo metropolitano di Lione in direzione Parigi, mi imbattei in uno scenario a forte vocazione agricola costituito da distese di campi coltivati e pascoli a perdita d’occhio. Un paesaggio piuttosto uniforme dove, di tanto in tanto, si ergono colline molto ampie contornate da tanta vegetazione. Difficile immaginare distese di vigneti in questo contesto, eppure ormai ero quasi arrivato a destinazione; un cartello mi preannunciò la prima tappa: Bourgognes, Côte Chalonnaise. Incredibile come di punto in bianco lo scenario cambiò veste, la vigna tornò a farla da padrone di casa. La prima cantina che ho visitato è stata quella di Laurent Cognard nel piccolo paese incantato di Buxy. Era ora di pranzo, nel villaggio non c’era anima viva, solo il rintocco di un campanile e qualche gatto che scorrazzava qua e là. Vidi una piccola locanda aperta, entrai per mangiare qualcosa e una signora con fattezza mascolina mi accolse al bancone, sarebbe potuta essere la sorella di Obelix. Sfoggiai il mio inglese da strada e la signora pazientemente senza manco rispondere mi mostrò il piatto del giorno: entrecôte a la chalonnaise et pomme de terre. Capii che non avevo alternative ma, sarà stata la gran fame o l’atmosfera borgognese che bistecca e patatine in versione francese furono una delizia. Finalmente arrivò l’ora di visitare la cantina. La maison era situata nel centro del paese, in un palazzo storico del 1700. Un grazioso cortile collegava il punto vendita della cantina dall’abitazione principale. Una gentile e cordiale ragazza mi accompagnò nella visita mostrandomi la cantina di vinificazione e le bottaie. Una cantina a misura d’uomo, non oltre 100000 bottiglie prodotte annualmente; le bottaie, divise tra vini bianchi e rossi, sono state ricavate negli scantinati degli edifici con volte molto basse che trasudavano umidità dal suolo, tutto ciò rendeva l’ambiente molto avvolgente. Arrivammo al punto vendita, la ragazza gentilmente mi spiegò quali vitigni venissero coltivati prevalentemente in Borgogna: Pinot noir, Chardonnay, Aligotè e Gamay. Subito dopo mi chiese cosa volessi assaggiare e, pensando che quattro vitigni non sono molti, gli chiesi di farmi una panoramica generale di tutti i vini da loro prodotti. Mi presentò una lista con circa 30 etichette: Oh per Bacco! Così tanti! Mi mostrò una cartina del loro distretto viticolo, la viticoltura in Borgogna è suddivisa in macro e microzone dove, attraverso un lavoro di zonazione viticola ogni singola microzona viene raggruppata per caratteristiche omogenee del suolo e qualità del vino; da qui la differenza tra:

“Gran Cru”, ovvero vini che portano il nome del vigneto;

“Premier cru”, vini che hanno il nome del villaggio e del vigneto;

“Communale”, vini che si fregiano del nome di un villaggio;

“Regional”, vini che riportano il nome dell’areale viticolo;

Solo adesso capii perché tutte quelle etichette!

La Maison ha diversi vigneti sparsi nella Cotê Chalonnaise, in particolare nel Premier cru Montagny, ove produce un vino da ogni singolo vigneto. Incredibile!

Verso la fine della visita arrivò Monsieur Cognard, un simpatico omone che mi chiese che mestiere facessi:

“Enologo” gli risposi, e anziché chiudersi a riccio, come spesso avviene nelle visite tra tecnici, mi disse:

“Hai delle bottiglie del tuo vino con te?”

Io: “Certamente Monsieur”

Lui: “allora facciamo a cambio con delle mie, cosa aspetti?”

Questo è il vero spirito dei vignerons francesi!

Il mio viaggio continuò verso Beaune, avevo un appuntamento alle 17 da Fernand et Laurent Pillot. Di corsa, con il mio sistematico ritardo, raggiunsi la cantina immersa tra i vigneti ancora in dormienza, nella patria dello Chardonnay, il Gran Cru Chassagne-Montrachet. I vigneti erano contraddistinti dal tipico sistema di allevamento a cordone speronato, con un sesto d’impianto che si aggirava dalle 10000 alle 16000 piante per ettaro, fusti alti circa 30 cm dal suolo con circa 10 gemme a frutto per pianta, ingabbiati tra corridoi di filari di vite molto stretti. Difficile lavorare il suolo in queste condizioni! Eppure i vigneti erano tutti vangati, grazie all’ausilio di macchine agricole davvero singolari. Bussai alla porta della Maison Pillot e un gentile signore mi accolse in una moderna ed accogliente cantina. Botti di acciaio e cemento per la vinificazione, tonneaux e barriques per l’affinamento erano i materiali che la Maison usava nella produzione, senza dimenticare che le barriques sono rigorosamente da 228 lt, come vuole la scuola borgognese, e non da 225 lt tipicamente di scuola bordolese. Fernand è un uomo che ti trasmette tranquillità e equilibrio, esattamente come i suoi vini. Con calma e pacatezza mi raccontò particolari pedologici del suolo, tecniche di vinificazione e aneddoti del luogo, mentre degustavamo i suoi Chardonnay nella stupenda sala degustazione che si affaccia a 180° sui vigneti aziendali.

Chiesi a Fernand:

“Quali sono le rese di produzione che hai in vigna?”

Rispose: “40-45 ettolitri per ettaro”

Rimasi un pò spiazzato inizialmente, da noi le rese si indicano usualmente in quintali di uva per ettaro, poi capii che in un contesto di pregio come la Borgogna il fine ultimo di ogni viticoltore è quello di imbottigliare il proprio vino e non vendere esclusivamente uva. Non c’è da meravigliarsi se la loro unità di riferimento nella resa si riferisce al prodotto trasformato ottenuto e non alla quantità di materia prima prodotta.

Finimmo a parlare di reddito di cittadinanza e conseguente crisi di manodopera in campo mentre assaggiavamo la nuova annata di Pinot noir del cru Pommard. Incredibile come anche nel regno della viticoltura mondiale di pregio si possono condividere gli stessi problemi quotidiani delle mie zone di produzione viticola. Come dire: la storia si ripete anche nel “Paradiso dei vini francesi”. Ormai la magnifica esperienza trascorsa tra i filari borgognesi volgeva al termine, una calda luce crepuscolare scompariva tra le colline vitate, mentre portavo con me i segni di una splendida giornata. Cenai a Beaune, in uno dei numerosi bistrot dislocati tra le numerose enoteche che contornavano la città turistica. Non c’era molta affluenza tra le strade buie del centro storico, solo qualche schiamazzo davanti alle insegne delle locande aperte.

Il giorno dopo ero di ritorno verso casa ma la strada da fare era infinita, circa 3000 km! Decisi che dopo aver superato il confine di stato mi sarei fermato a pernottare ovunque avessi raggiunto l’ora di cena. Avevo ancora tutta la giornata avanti e il Beaujolais era di strada. Per un amante di “vini spregiudicati” come me perché non approfittare?

Raggiunsi Saint-Lager, vicino Cerciè, nella Cotê de Brouilly, uno dei cru del Beaujolais. Siamo nella patria del Gamay, vitigno a bacca rossa che caratterizza le “nouveau vin” di queste zone e non solo. Immediatamente rimasi colpito dal diverso sistema di allevamento rispetto alla Borgogna, ovvero le piante erano impostate come piccoli alberelli senza tutori ne fili, quasi che rasentavano il terreno. Mi riferivo al “Gobelet”, un sistema di allevamento antichissimo che si adatta benissimo a varietà poco vigorose come il Gamay. Non avevo idea di quale Maison visitare, feci una ricerca dal navigatore e trovai nei paraggi una bellissima cantina che aveva un torchio gigante nel cortile d’ingresso, Domaine des Fournelles. Parcheggiai e mi intrufolai nel giardino, vidi una porta aperta con dei tubi per travasare il vino stesi sul pavimento che si perdevano verso una stanza nel seminterrato, quando all’improvviso spuntò un signore con un faretto acceso in testa, come un minatore, era Monsieur Guillaume all’opera! Stava travasando il vino dalle fecce fini dentro delle cisterne in acciaio nella sua cantina sotterranea. Arrivai nel momento meno opportuno, ciononostante gli chiesi se potessi visitare la cantina.

Mi rispose “oui, oui Monsieur!”

Mi strinse la mano violacea color vinaccia e si scusò dicendomi:

“Purtroppo non posso seguirti molto ma ti farò una degustazione veloce”

Risposi:

“Non preoccuparti, mi sento come a casa, se vuoi ti do una mano!”, ripensando a quante volte capitai nella sua stessa situazione.

Mi accolse in un piccolo spazio ricavato in una nicchia sotterranea dove affinava vino in botte, abbastanza inusuale per il Gamay da queste parti. Poi arrivò anche la moglie di Monsieur Guillaume e mi spiegarono che questa parte del Beaujolais era un cru dove si producevano vini pregiati che prevedevano anche un affinamento in botte oltre al classico vaso vinario di cemento e acciaio. Sul tavolo la classica composizione di pietre che caratterizzano il loro suolo non manca mai, nota evidente di come il terroir anche in questi luoghi è l’elemento distintivo. Mentre continuava il travaso Monsieur Guillaume mi mostrò altri particolari della sua cantina sotterranea davvero suggestiva. Un vero artisan vigneron! Tolsi subito il disturbo e mi feci accompagnare verso i vigneti aziendali, li salutai e mi incamminai senza indugio su per l’immenso colle Broully, ovunque impiantato di vigneti. Notai che mentre salivo verso la sommità del colle, dal terreno spuntavano ciottoli sempre più grandi, il pendio diventava sempre più ripido fino ad avere un terreno ricco di scheletro, ovvero ricco di sassi di ogni forma e dimensione. Mi ricordai quello che mi raccontò Monsieur Pillot, più si va in alto nelle colline della Borgogna più si assottiglia lo strato di terra fertile fino a scomparire quasi del tutto, ecco perché sulle sommità delle colline ci sono solo boschi! Anche nel Beaujolais era così, ed ora che ci penso anche nella regione della Champagne. La tecnica del “no-tillage” su quei pendii era molto praticata, una scelta quasi ovvia dove lo strato di suolo fertile è quasi assente e la lotta alle erbe infestanti deve essere gestita in modo da preservare la scarsa fertilità del terreno. Raggiunsi la sommità della collina, il panorama era unico, davanti a me tutto il versante est che guardava al vicino distretto viticolo dello Jura e della Savoia. Era una giornata tersa stupenda, su quella collina sembravo un legionario romano con il bastone di vitis in mano alla conquista delle terre dei Galli, poi vidi l’orologio e smisi di fantasticare, era tardissimo! Dovevo rientrare in Italia e, come se non bastasse, nella serata avrebbero chiuso anche il traforo del Frejus per manutenzione, per Bacco!

Arrivai nei pressi di Torino all’imbrunire, ero molto affamato e mi fermai in una stazione di servizio per una sosta. La strada da fare era ancora molto lunga e mi sembrava il caso di fermarsi nei paraggi. Riflettendo un pò pensai che l’indomani avrei potuto sfruttare ancora la mattinata per un breve tour enologico e in un battibaleno decisi…Langhe! Quale posto migliore per chiudere il mio tour enologico in bellezza, così prenotai una camera in albergo nei pressi di Bra, nota città per tutti gli amanti della “slow life”.

La mattina seguente decisi di mettermi in contatto con le cantine ma ignorai un aspetto fondamentale, era venerdì santo e nelle Langhe senza prenotare almeno due settimane prima non vai da nessuna parte!

Ma la perseveranza è una delle mie doti migliori per cui mi diressi verso la reception dell’albergo e feci stampare una lista di cantine da visitare in zona. Le chiamai praticamente tutte ma purtroppo non erano disponibili. Ero quasi pronto a rassegnarmi ma ne era rimasta solo una: Figli di Luigi Oddero, storica azienda delle Langhe situata nel comune di La Morra. Alla fine la mia tenacia fu premiata e così prenotai la visita. La strada che da Bra si dirige verso La Morra è molto tortuosa, si disloca tra noccioleti, querceti e vigneti arroccati su pendii molto ripidi, spesso assolcati da terrazzamenti trasversali chilometrici. Per alcuni versi assomiglia molto al distretto viticolo della provincia di Chieti, ripide colline ricche di vegetazione dove i vigneti sorgono tra suoli argillosi con una forte componente limosa e calcarea. Qui il trattore a cingoli è imperativo! Arrivai a destinazione, riconobbi la torre Specola, simbolo aziendale che svettava tra i vigneti. Fui accolto dal responsabile commerciale appena ritornato da uno dei suoi viaggi di lavoro.

Fu gentilissimo, mi raccontò la storia centenaria dell’azienda fondata grazie a Luigi Oddero, enologo e uomo di grande curiosità e cultura, un “gentiluomo di campagna” come definì Mario Soldati nel suo libro “Vino al vino”. L’azienda, dopo aver subito una divisione familiare nel 2005, conta adesso circa 35 ettari di vigneto che circondano la cantina con diversi cru, tra cui il blasonato “Rive” dove sorge la torretta simbolo della famiglia. L’azienda è completa sotto il profilo tecnologico, dall’acciaio ai grandi serbatoi di cemento, ma il legame con il passato non manca mai, infatti nelle cantine sotterranee imperano botti di legno giganti, ben oltre i 100 ettolitri di capacità che testimoniano la forte tradizione vinicola del territorio. Finalmente arrivò l’attesissimo momento dell’assaggio, Il Nebbiolo è l’attore protagonista indiscusso di questa azienda in tutte le sue interpretazioni enologiche, ma non mancano anche altre varietà. Trovai una scaletta di vini da assaggiare: dal Dolcetto alla Barbera per arrivare al Barbaresco e infine, dulcis in fundo, il Barolo. Una degustazione che battezzai come “Profondo rosso Langhe”. L’impatto sensoriale fu fortissimo, una sterzata stilistica orientata in direzione del tutto opposta ai vini dei cugini francesi. Anche se, la cultura del “terroir” e delle microzone viticole è stata condivisa in questi luoghi con la viticoltura francese, la potenza e l’intensità dei caratteri di questi vini non hanno paragoni con la delicatezza dei vini francesi. Note balsamiche, erbe selvatiche, aromi eterei, sorsi dalla trama fitta e scabrosa, sono gli effetti evidenti di un vitigno unico in un territorio scosceso come le Langhe.

Lasciai la cantina che avevo ancora il sapore del Nebbiolo in bocca e fu solo in quel momento che provai a fare un confronto con i vini che avevo assaggiato nei giorni scorsi. A tal proposito ricordai le riflessioni del Professor Massimo Recalcati in uno dei suoi podcast che seguo occasionalmente, in cui affrontò la sfera del piacere nell’uomo e le sue diverse forme. Si parlava di piacere equilibrato, temperato, entro dei confini ben definiti, quello che Aristotele definirebbe frutto di una “virtù mediana”, che si contrappone al piacere più intenso e smisurato, intemperante, ricco di tensione che va oltre i confini del misurato. Quale paragone migliore per i deliziosi vini che avevo assaggiato nel mio breve ma intenso tour enologico. Se oggi qualcuno mi chiedesse a cosa paragonerei i vini francesi direi, senza ombra di dubbio, che sono vini dalle “virtù mediane”, che trasmettono un piacere equilibrato, come quello che infonde un gatto raggomitolato davanti a un camino mentre mostra piacevole rilassatezza nel ricevere calore dallo scoppiettio del fuoco. Non potrei fare lo stesso paragone per i vini delle Langhe che somigliano a una tempesta di sabbia generante tensione, perdita di ogni confine che, solo dopo il suo passaggio, lascia un senso di intenso sollievo. Ora che ci penso, questa sensazione l’ho provata più volte con quel “Gian Burrasca” del Montepulciano abruzzese, sarà stato solo il frutto del blasonato “terroir”? Chissà! Ero ormai alla guida e la strada del ritorno era ancora troppo lunga, portavo con me un bagaglio di esperienze uniche vissute in un viaggio del tutto improvvisato. Alla radio trasmettevano “Bartali” di Paolo Conte, che strana combinazione! Non poteva esserci canzone più adatta per scherzare un pò sull’eterna rivalità sportiva italo-francese…figuriamoci sui vini!

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