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MUSICA DA ASCOLTARE: “L’ingranaggio, il pelo, l’ingranaggio”, Giorgio Gaber

TEMPO DI LETTURA: 6 min.

Sarà un ossessione o forse l’insonnia che ho mentre sto scrivendo ma non è un caso se questo testo l’ho intitolato come una celebre canzone degli Who. Adesso, per me, è il momento dell’anno in cui si crea qualcosa di nuovo, si dà una forma alla materia prima, inizia una nuova metamorfosi ed è del tutto normale se dal profondo del mio inconscio riaffiorano dubbi, incertezze e perplessità finendo per essere inghiottito dal vortice delle mie considerazioni: Quali obiettivi mi prefiggo? Quali percorsi attuerò? Ma soprattutto qual’è la mia meta?

Sin da piccoli ci impartiscono la conoscenza delle nostre capacità, del nostro “ego”; “nosce te ipsum” direbbero i latini, attraverso lo studio, l’educazione come liberta di apprendimento, il piacere della scoperta da cui scaturisce il senso di volere, aspirare a qualcosa, avere in vista un fine, un desiderio. Bene, fin qui niente di così trascendentale, è una delle caratteristiche più affascinanti dell’essere umano. La ricerca di se stessi.

Tutto questo potrebbe creare alcuni condizionamenti? Come ogni anno a Settembre ero in vigna per fare i classici controlli di maturazione nel mio vigneto, ma spinto dalla voglia di coinvolgere mio figlio a prendere degli acini d’uva tra le sue piccole dita, sono rimasto colpito dal suo sguardo curioso ed indagatore verso qualcosa che per lui era del tutto nuova.

Nicolò

Si comincia da piccoli a scoprire il mondo che ci circonda, guidati dall’istinto della curiosità, come nel mito di Pandora. Comprendiamo solo più tardi l’effetto del nostro agire, del nostro essere. Cerchiamo noi stessi e riflettiamo il nostro ego su quello che ci appartiene, su quello che ci rappresenta. Nulla di più naturale ma gli effetti non sono vani. A volte ci spingiamo oltre, sospinti dal fascino del libero arbitrio che fomenta i nostri animi come fosse “Garbino” che soffia su una pineta in fiamme. Ma tutto questo non avviene senza timori.

Pericolosissimo, ma cosa saremmo noi se fossimo sempre schiavi dei nostri timori?

Forse dovremmo agire come sostiene Friedrich Nietzsche tra le pagine di uno dei suoi tanti capolavori, “Ecce Homo”: “Per diventare ciò che si è bisogna partire dal presupposto che non si abbia neppure una lontana idea di ciò che si è. Da questo punto di vista hanno un loro senso ed un loro valore anche i passi falsi della vita, le temporanee deviazioni, le vie perdute, le esitazioni… Dimenticare se stessi, come fossimo istinti disinteressati, diventa la soluzione all’autoconservazione, all’egoismo perché non ci può essere pericolo più grande che incontrare se stessi faccia a faccia con lo stesso compito nella vita”. 

In fin dei conti per me è un po’ come fare vino. Tentativi, espedienti, convinzioni, errori palesi e perplessità finalizzati alla voglia di esprimere se stessi nel raggiungimento delle mete prefissate attraverso un mezzo, un’estensione del nostro essere: una bottiglia di vino. Sarebbe sciocco pensare che serva solo per appagare i nostri sensi.

bottiglie senza identità

Ad esempio, immaginiamo una bottiglia di vino senza etichetta, ha un valore immenso ai tuoi occhi finché non ti rendi conto che può essere solo fine a se stessa se non la si veste di un significato, di un’icona comprensibile agli occhi degli altri. Solo in quel momento acquisisce un valore oggettivo, riconoscibile da tutti e condivisibile. Non sono manie di protagonismo. In realtà ci vedo un’innata voglia di comunicare se stessi assegnando il giusto valore alle nostre azioni. E allora sì! Diamo libero sfogo alla nostra creatività con fermentazioni alcoliche di ogni tipologia: naturali, convenzionali, con lieviti selvaggi, con lieviti “istruiti”, con lieviti “alieni” (forse? Boh). Non finisce qui: vini macerati, vini dimenticati, vini maltrattati, vini concettuali e perché no, vini dogmatici. Vini così densi da tagliarli con il coltello, vini troppo fugaci che abbagliano come fossero fuochi d’artificio. In ogni modo vini che ci rappresentano se qualcuno ne comprende il vero valore.

Poco tempo fa seguii un’interessante dibattito tra il noto influencer Marco Montemagno ed il poliedrico Prof. Umberto Galimberti. Il professore parlando della società contemporanea affrontava l’importanza del concetto d’identità e la sua metamorfosi ai giorni d’oggi rievocando l’antica cultura ellenica. Egli citava: “Gli antichi greci lo sapevano bene, l’identità è il frutto del riconoscimento, è un dono sociale. Aristotele sosteneva che se un individuo entrando nella Polis pensasse di poter fare a meno degli altri, o era una bestia o era Dio. Tanto che persino Dio potrebbe non esser felice perché è monachòs, ovvero solitario”; Ecco perché, simpaticamente osservava il Professore, forse ha bisogno delle preghiere degli uomini che gli tengano un pò compagnia! Invece ai giorni nostri il concetto d’identità è mutato, osservava il Prof. con “occhio” filosofico, frutto di una società attuale basata prevalentemente sull’efficienza e sulla produttività, di un sistema che istiga ad ottenere il massimo degli scopi con il minimo sforzo. La continua ricerca di una perfezione che spinge l’autostima ed il senso d’identità a misurarsi con la capacità di sentirsi adeguati al sistema, sentirsene parte. Un maledetto ingranaggio magnetico che ti trascina via. Tecnica, razione diventano uno strumento in funzione del mero raggiungimento di un singolo obiettivo, non più di un’indagine introspettiva tale da far fatica persino chiedersi se si è ancora capaci di agire con passione, con amore.

Credo che se lo scopo di apparire sia mostrare le proprie capacità frutto di una crescita personale e professionale, il fine è ineccepibile. D’altronde una crescita professionale è sempre un’occasione di accrescimento identitario, ma riconosco che a volte si assottiglia il confine “permeabile” che c’è tra vivere e lavorare finendo per dimenticare le differenze.

Purtroppo così, anche nel mio mondo, possono nascere vini senza identità, senza anima, vini “replicanti” che ormai sono dentro l’ingranaggio, che sanno ostentare, ma che non lasciano il segno perché probabilmente sono il frutto di un lavoro perfetto e disinteressato. Bisognerebbe pensarli con uno spirito più “funky”, informale e bizzarro come piacerebbe al carissimo Mr. Hamish, un simpatico wild boy australiano che mi ha accompagnato in questa lunga ed intensa vendemmia 2021.

Mr. Hamish non disdegna i tecnicismi, li osserva ed ogni volta dice: “my worst enemy!”

Mr. Hamish non si pone il quesito se il gusto di un vino rispecchia dei canoni prefissati, semplicemente non gliene frega niente. Come quando indossa i suoi sandali di cuoio a riporto con i calzini di Alpaca argentino per uscire la sera. Bizzarro no?

Mr. Hamish non si preoccupa di capire se può piacere o meno il suo modo di agire, quale saranno i suoi effetti, dove lo porteranno.

Sara perché adesso è troppo giovane, ma probabilmente arriverà anche per lui il momento per chiedersi: qual è il prezzo da pagare per mostrare la propria identità?

Difficile dirlo…

Forse, per questa volta dovrei affidarmi alle parole di un grande scopritore della realtà, Blaise Pascal:

“L’immaginazione ha il grande dono di persuadere l’uomo, la ragione ha un bel gridare ma non può assegnare un prezzo alle cose…”

Io, Hamish e l’altro

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